Lamor
chad esso troppo sabbandona, di sovra noi si piange per tre cerchi; [avarizia - gola - lussuria] (Purg. XVII, 136-137) "Or ti puote apparer quantè nascosa Ed una lupa, che di tutte brame Così scendemmo nella quarta lacca, Ed elli a me: "Tutti quanti fuor guerci Mal dare e mal tener lo mondo pulcro Comio nel quinto giro fui dischiuso, "Fino a quel punto misera e partita Maledetta sie tu, antica lupa, O avarizia, che puoi tu più farne, Noi repetiam Pigmalìon allotta, |
Una luce fredda e bianca
illumina dal basso il tragico crepuscolo. LAvarizia, lupa che "molte genti fe già viver grame", rinserra al petto il sacco del suo tesoro facendosene guanciale. Braccia e volto contratti in uno sforzo continuo e terribile di possedere. In precario equilibrio siede su un sacco ancor più grande, quasi rinserrandolo fra le gambe, non avvedendosi di schiacciare con esso un cadavere senza volto, apocalittico emblema della miseria altrui, estremo relitto fino a lei sospinto dal mare immenso della fame che ogni giorno divora migliaia di uomini, di donne, di bambini scheletriti dal ventre gonfio. Laria sembra risuonare dei loro gemiti continui. Come "lupa... carca nella sua magrezza" o "usura che offende la divina bontade" la donna ghermisce il suo tesoro, ansiosa di non perderlo e di accrescerlo; allo stesso modo lombra ghermisce il suo corpo e ne scarnifica i profili. Lo sguardo obliquo e reclinato non può vedere. È accecato - come scrive Cipriano - da spessa e profonda caligine di avarizia che ne allontana ogni splendore di verità. Il volto è impassibile. Il corpo longilineo è esageratamente magro; le gambe lunghe, sottili, nervose come il piede, solo in punta appoggiato al terreno. Nei due grandi sacchi è fin troppo facile vedere un riferimento ai macigni che - nellInferno - gli avari sospingono con il petto. Dante li guarda con acre disprezzo, ridotti come sono a pura materia in movimento avendo riposto le loro anime nella materia.
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