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I Vizi Capitali

Dialogo teatrale di Mario Donizetti

 

 

LUSSURIA

I Voce (Dotto)    - Quando la ragione della generazione ad alta voce chiama, le nostre viscere diventano la nostra ragione. Ma la ragione delle viscere è una prigione.

II Voce (Satiro) - Quando l’esigenza che ci ha generato ad alta voce chiama, ogni nostra resistenza è peccaminosa. Quando gli avi comandano che l’atto si compia, il nostro tempo personale si unisce al tempo dell’esistenza totale e allora è impossibile resistere alla piena che trascina alla generazione. È impossibile non consumare il più sacro e sontuoso banchetto.

I Voce - Ma questa voce è continua e a volte ci fa violenza. La voce che ci ha generato diventa per noi strumento di tortura.

La voce della generazione chiama in ogni momento. Chiama anche quando la pianta è sterile e i fiori cadono al soffio del primo vento.

La volontà della generazione è anche volontà della sua distruzione. Perché uccide il seme che ha fatto spasimare alla vita.

Comanda la nascita di infiniti germogli e poi li stronca prima che il verde del loro stelo desideri il calore del sole.

Nelle viscere della terra si consuma la violenta sopraffazione del suo seme.

La potenza della sopraffazione è amore alla vita e la morte del debole è giusta. La crudeltà della natura è crudele fino allo sterminio.

La volontà della generazione che in me è comandamento, tracima la misura. Il mio desiderio è più grande di me, sono assetato oltre l’amore nell’amore inutile: nella lussuria.

Natura spietata esige lussuria per distruggere le sue creature.

II Voce - Ma se così non fosse noi verremmo sorpresi impreparati al compimento del suo progetto. La lussuriosa libidine è necessaria ed è piacevole perché è necessaria.

I Voce - È piacevole perché ti inganna con l’adulazione. Mi accieca con l’illusione della libertà e non sente la mia costrizione.

Io vivo la mia lotta perdente.

Vivo la contraddizione in ogni istante del mio tempo.

II Voce - Il lamento dell’abbondanza è scritto dall’ingratitudine e vociato dalla falsità.

Se comanda natura, il lamento esce sempre da un sepolcro imbiancato.

Lussuria, è vero, colpisce anche i casti che si lamentano della tentazione, ma se i casti non fossero tentati non sarebbero casti ma impotenti.

I casti lamentosi come te o vogliono la castità servita fredda o sono ipocriti quando lussuria li vuole.

Cosa dovrebbe dire chi ha scelto verginità? Dovrebbe protestare in piazza S. Pietro. Ingiuriare il Papa che trovi una soluzione al conflitto e metta pace fra natura lussuriosa e verginità, altro che quisquilie di casti.

Leveresti lamento se tu fossi impotente? Lussurioso non lamentarti dell’abbondanza altrimenti natura potrebbe farti uno scherzo.

A chi allora urleresti le tue rivendicazioni? Forse a Dio che ti ha esaudito, o al demonio che ti ha suggerito l’infame lamento?

I Voce - Maledetta velenosa bocca. Lascia che tutto si compia. Non impedire il lamento che consola. Sei crudele a parole ma già tutto è nei fatti crudele e allora taci. Perché dovrei onorare la mia debolezza?

II Voce - Perché mostreresti forza.

Tu finirai i tuoi giorni imprecando contro natura.

Rinnegare la propria debolezza è una vera debolezza. La forza consiste nel mostrare la propria debolezza.

E poi il lussurioso che si sconfessa è cattivo. Trasmette un dolce fluido e poi ti pugnala. Il buon lussurioso invece ti offre la sua debolezza e nel far questo acquista la forza dell’agnello.

Donna non credere una sola parola sussurrata dal lupo che sconfessa la sua lussuria, perché è un debole che si nasconde per colpire a tradimento. È un falso agnello, è un puro delinquente.

I Voce - Non l’ascoltate.

Lussuria né è buona né è cattiva. È il godimento tormentoso di un godimento immaginario.

II Voce - È un tormento? ... (sorride)

I Voce - Sorridi infame.

Invoca abbondanza nell’abbondanza.

Per nutrire in abbondanza morte e sterminio.

A te manca solo l’aiuto in provetta che è lussuria senza castigo, che è lussuria pura senza accidenti, senza tormento, senza obblighi, senza rischio. Pura volontà di dominio, pura centralità antropomorfa, pura superbia di razza.

II Voce - Io conservo nella bocca la forma del seno della donna che ha tenerezza per me. E perché nessuno possa togliermi la grazia d’essere solo io il custode di tale grazia mento e sputo sentenze bigotte come fai tu. Se ti dovessero ascoltare, la moltiplicazione sulla terra si farebbe per procura e al posto della volontà si userebbe il manuale della fecondazione razionale.

Chi per amore sogna lussuria non pecca e se lussuria non è consumata è meritoria.

(pausa) Se consumata è meritevole.

 

 

AVARIZIA

I Voce (Dotto)  - Così perché sia fatto un argine alla libertà lussuriosa, saggezza insegna prudenza.

Nella religiosa legge della nostra storia noi rinneghiamo lo spreco lussurioso della natura e opponiamo alla libertà la misura della parsimonia.

Questa eleva la nostra statura poiché nella rinuncia noi vediamo la garanzia del futuro benessere.

Nell’astinenza e nel digiuno vediamo la limitazione dell’arbitrio.

II Voce (Satiro) - Via dunque da noi l’eccesso. Viva la nuova misura.

Così nell’orgia del risparmio vivrà lussureggiante l’avarizia.

I Voce - Questo è possibile maledetto tarlo perché è impossibile segnare un limite al risparmio.

II Voce - E allo spreco. Perché la via di mezzo non c’è.

Noi nell’elevare liberamente allo scopo la moderazione dell’abbondanza, portiamo la moderazione alla sua abbondanza cadendo nella miseria dell’avarizia.

I Voce - La libertà degrada qualche volta.

II Voce - Ed è certamente vero che la parsimonia è madre dell’avarizia perché sempre e poi sempre succede che questa rinneghi la madre facendola apparire imperfetta.

I Voce - Infatti la parsimonia degli altri ci appare come avarizia, ci appare come parsimonia abbondante, che non è altro che avarizia ovvero parsimonia imperfetta.

II Voce - Ma è anche vero che l’avaro nasconde la sua avarizia facendola credere parsimonia.

Infatti dove sarà quel parsimonioso che ammetta d’essersi degradato nell’avarizia.

Ogni avaro pensa che senza la sua misurata parsimonia il mondo andrebbe in rovina.

Nessun avaro crede che quel che non mangia per avarizia si trasforma nel più fetido sterco pur senza passare dallo stomaco. L’avaro risparmia per impoverire. Conserva per imputridire. Pensando al futuro agonizza nel passato.

I Voce - E chi allora dalla parsimonia non cadrà nell’avarizia sarà santificato.

II Voce - Ma la Legge è comunque incompleta, infatti non fissa il limite del nostro risparmio né il limite che separa l’indigenza colpevole da quella incolpevole.

La legge sa che il piccolo avaro è reso indigente dall’avarizia di un grande avaro e ciò che è molto per il primo è poco per il secondo.

La legge sa che il debole verrà sfruttato da un altro meno debole, ma dato che il più debole, ossia l’ultimo dei deboli è uno solo, tutti gli altri sono sfruttatori.

I Voce - Secondo la tua rivoltosa pazzia tutti siamo umiliati dalla parsimonia degli altri.

II Voce - Anche chi è più povero di noi ci umilia con la sua parsimonia perché umilia chi è più povero di lui.

La parsimonia di chi è povero è vera avarizia per chi è ancora più povero.

I Voce - Parsimonia e avarizia sono dunque lo stesso.

II Voce - Sì per interazione. Perché la vita di ognuno si svolge in disparità.

Siamo tutti avari meno l’ultimo degli indigenti, come ti ho detto.

Questi non potendo umiliare uno più povero di lui è costretto a non essere avaro, ed essendo costretto è avaro come gli altri.

La condanna dell’avarizia è una ipocrisia della legge.

Per salvare l’anima all’avaro la legge finge che sia parsimonioso ma così, in questo modo, come è salvata l’anima all’avaro, in realtà è già dannata.

I Voce - Per essere tutti salvi allora dovremmo essere tutti indigenti.

II Voce - A tutti indigenza o ricchezza. Quel che conta è la parità.

I Voce - Ma se tutto fosse pari e le parti identiche fra loro, se non ci fosse il destro né il sinistro né l’alto né il basso, il ricco e il povero, il mondo non ci sarebbe. Solamente le differenze fanno il mondo.

II Voce - Non volare troppo alto altrimenti le ali al sole si sciolgono. Tu caschi giù, ti rompi l’osso del collo e solo allora il mondo perde le sue differenze.

L’avarizia nascosta e benedetta come parsimonia è dannata a causa della sua salvezza.

I Voce - Certo, l’avarizia truccata da parsimonia è la peggiore e l’avaro con quel trucco è il peggior nemico degli uomini e il miglior dannato.

II Voce - Tu osservalo: l’avaro benedetto, ossia il perfetto dannato, ha un certo aspetto perché nel possedere è posseduto. Si lava continuamente ma sempre più si sporca perché è nello sporco che l’avaro si pulisce.

Il muscolo massetere dell’avaro perfetto è duro e sporgente come se masticasse un sasso. L’occhio impaurito e il labbro tirato. Il pallore verde chiaro dovuto ad una dolenzia continua del ventre lo fa meditare, ma non più di tanto.

L’avaro perfetto è un colitico cronico, gli spasmi intestinali e le frequenti deiezioni gli procurano una sete inestinguibile ma non può bere, altrimenti il pallore diventa mortale. Trangugia una immaginaria bevanda, sicuramente gialla oro zecchino. Vive da povero e muore ricco e però la sua ricchezza non gli consente un funerale onorevole perché gli eredi solitamente apprezzano la lezione del maestro. Ai funerali l’unica dovizia è l’ira perché l’avarizia semina diffidenza e rancore in vita e uno scoppio di odio liberatorio alla morte dell’avaro.

 

 

IRA

I Voce (Dotto)  - Ira sublime, con te tutto mi appare come un nulla.

Quando nell’indignazione l’ira mi afferra tutto cade davanti a me. Ogni interesse svanisce. Si eleva sopra tutte le cose l’imperativo della giustizia.

Giustizia! Giustizia esigo al prezzo della mia vita che mi appare in quel momento un piccolo strumento, una presenza ingombrante.

Rinunziassi all’ira rinunzierei alla mia dignità.

II Voce (Satiro) - Ma se l’ira è la tua dignità, sei indegno del perdono e gli altri allora dovrebbero solo bastonarti.

L’ira ti impedisce la giusta indignazione e ti oscura la vista.

Chi può dire quando l’ira ti giustifica. Forse quando parsimonia giustifica avarizia.

I Voce - E all’ora l’ira non è mai giusta anche se è giusto che l’ira mi afferri nell’indignazione.

II Voce - L’indignazione lascia il tempo al perdono. L’ira è solo infernale.

I Voce - Ma senza ira chi può fare giustizia? Forse una macchina. Forse un computer.

II Voce - Quando giustizia sia fatta può essere per gli altri compiuto un delitto. Anche se è un delitto al computer.

Giustizia può per altri essere arbitrio.

I Voce - Nessuno è giusto a tale punto che l’ira sia giusta, ma senza giudice il delitto si nutre e prospera nell’indifferenza.

Certo l’ira da me passa e, dagli altri raccolta, è contro me ritorta come vendetta.

Se ciò che è giusto per me è per altri ingiusto, l’ira degli altri è contro me giusta.

Così ira contro ira sancisce il suo trionfo anche se è nutrita dalla riflessione.

II Voce - Vuoi dire, covata dalla vendetta.

I Voce - Potrebbe mai l’irato ergersi a giustiziere se non avesse già patito ingiustizia?

L’ira è strumento di esecuzione inderogabile di una sentenza contro il delitto. L’ira si alimenta nella sopportazione, nella vittima si nasconde, nel pacifico si rinfranca, nel paziente si precisa. Si perfeziona nel coraggio.

La giustizia dell’ira è un’opera d’arte: è determinata dall’impulso ma scientifica nello scopo.

L’ira è il risultato di un processo dove l’accusa e la difesa del malfattore sono pari. Ma quando sentenza sia data, l’ira trascina il giudice all’esecuzione sommaria perché la sua natura è rapida.

II Voce - Ma nell’esecuzione della condanna l’ira degrada la condanna.

Diventa isterica, confusa, a volte comatosa. Può anche essere mortale quando sia vera, viscerale ira diabolica.

I Voce - Il giudice non è certo adeguato all’esecuzione della sentenza. La legge condanna l’ira non la sentenza e tanto meno il processo al malfattore. Condanna il modo dell’esecuzione della sentenza.

Condanna il giudice giustiziere che, come giustiziere, cade in difetto per ira e viene processato dal suo giustiziato.

Così l’ira non ha connotato sia quella del giustiziere che del giustiziato. L’Ira produce solamente lite viscerale e sia il giustiziere che il giustiziato invocano Dio come sostegno.

II Voce - Mentre è il demonio il loro assistente.

Nell’ira il volto di un cane diventa muso d’uomo. Voglio dire che nell’ira il cane e l’uomo sono gemelli. Nell’ira la bestia umana è veramente una bestia al punto che una bestia può essere umana.

L’occhio sporgente dall’orbita sembra vedere a trecentosessanta gradi ma non vede niente perché, come si dice infatti, l’occhio dell’ira è cieco. E questo si dice perché si sa.

L’irato ha un aspetto che a prima vista incute rispetto perché si presume abbia subito un torto. Ma quell’occhio bovino e vitreo spinge alla commiserazione.

Le vene del collo gonfie, il calore che gli avvampa il cranio gli raffredda i piedi. Si solleva da terra. Sembra schizzare in cielo ma ricasca e come una molla riprende quota.

Ecco: non sta né in cielo né in terra.

Sembra un dio ma è un povero diavolo.

 

 

ACCIDIA

I Voce (Dotto)  - Forse l’accidia potrebbe moderare l’ardore e salvarci dall’ira ma l’accidia è il peggiore dei vizi e, al contrario degli altri vizi, vive di assenza di vizi. Vive di morte costante e attuale. E allora come potrebbe un cosiffatto vizio moderarne un altro se tanto è passivo.

Se si potesse moderare un vizio con un altro vizio quello non sarebbe un vizio.

II Voce (Satiro) - Moderazione può rendere virtuoso anche un vizioso. Chi è invece viscerale nel vizio è anche viscerale nel giudizio. Straripa sempre. Ve lo immaginate l’accidioso viscerale? Quale giudizio darà sulla fatica degli altri! E questo mi pare curioso: che giudizio darà su quelli che hanno vizi? Resterà incomprensibile per un accidioso che un altro sia lussurioso o avaro o iroso o invidioso, goloso o superbo.

Nessun vizio lo sfiora perché l’accidioso è al di sotto di ogni vizio. Per l’accidia non c’è nulla d’altro, vive per sé e non produce per sé danno ma solo per gli altri.

L’accidia non solo non conosce il perché di un altro qualsiasi vizio ma anche di ogni virtù. Così senza conoscenza l’accidioso è anche e naturalmente ignorante.

I Voce - L’accidia è il peggiore dei vizi perché la sua natura è l’essere senza natura: è spregevole a tal punto d’essere nulla e madre del nulla.

II Voce - Quando accidia piglia, tutto molla.

Ogni sguardo accidioso ha la stessa durata. L’accidioso guarda l’amico così come guarda il nemico, alla stessa maniera. Amore e odio sono abitudini, non sentimenti.

Se non gli fai un pranzo non mangia, se glielo fai non mangia.

Se lo incontri per mezz’ora è tuo, se non lo incontri per mezz’ora è degli altri che lo incontrano per mezz’ora.

Non è ladro né bugiardo, ma vive di furto e impostura. Come gli riesca il trucco ve lo dico subito. Non parla: con modestia sussurra quello che potrebbe essere vero. E quindi è creduto e mostrando la sua indigenza dignitosamente sollecita il soccorso straordinario degli altri e così non ruba direttamente. Voi direte che è furbissimo: sì e no. Perché le sue false verità sono subito smascherate e poco gliene importa, perché aveva pur detto quello che poteva essere vero, ma soprattutto avendo liberamente detto il falso mostra di aver voluto dire il vero solo senza il preventivo controllo che quel vero potesse essere falso.

L’accidioso non ha interessi ma fa in modo che tutti gli diano disinteressatamente per imitarlo nobilmente.

Nulla dà ed è una spugna che tutto trattiene e niente gli giova. Senza fatica apprende una lezione morale e la incassa senza fatica. Poi la vende come sua, ma non gli frutta elogi. Anzi tutti si meravigliano che dalla sua bocca esca qualcosa che non sia quel sibilo tutto sussurrato. Parla chiaro una volta tanto quando insulta. Ma lo fa con tono dottorale, disinteressatamente, ecco per il bene dell’insultato. Fin che dura dura poi prende uno schiaffo e ammette che se lo meritava, rinnovando negli altri la stima che aveva perduto.

E avanti, che il tempo è infinito e non c’è la resa dei conti.

I Voce - Da questo punto di vista l’accidioso ha un merito: quello d’aver capito che tutto passa e passando è come se, rispetto all’eternità quel che è passato non sia mai esistito. L’esistenza è tempo finito, l’accidia infinito, e l’infinito si sa: è tutto, mentre l’esistenza è un sogno, forse è nulla.

II Voce - Non raccontare balle hegeliane: l’accidioso dorme e non sogna. Quando si stanca di dormire si vivacizza e nel risveglio gli viene voglia di non dormire cioè gli vien voglia di stancarsi.

Ma essendo questa voglia di stancarsi un togliersi dall’accidia questa voglia gli passa subito e gli vien voglia di non stancarsi, a quel punto si stanca per la fatica di aver avuto voglia di non stancarsi e allora gli è necessario il sonno. Ma l’idea del riposo lo stanca e subitamente da dove era partito si ritrova. Nuovamente riparte e il traguardo è la stessa partenza.

 

 

SUPERBIA

I Voce (Dotto)    - In questa bassa considerazione che noi abbiamo dell’accidia e del totale disprezzo dei vizi comuni io trovo l’origine della nostra superbia.

II Voce (Satiro) - Vuoi dire che il vizio della superbia consiste nella bassa considerazione degli altri vizi.

I Voce - Voglio dire che anche l’accidia, e così gli altri vizi, è degna di studio e comprensione perché avendo la sua motivazione nella sua causa, esiste per necessità.

Solo ciò che si vorrebbe dato a caso è indegno di interesse. Poiché il caso, se mai fosse possibile l’esistenza del caso, non è necessario che ci sia. Il caso è senza necessità d’esistere. E perciò anche il peggiore dei vizi deve essere degno del mondo e della nostra considerazione, altrimenti superbia coltiva il suo campo.

Superbia giudica dall’alto e per questo ogni cosa le sembra piccola. Ma ciò che fa piccolo l’altro, è piccolo da sé.

II Voce - Il superbo trova tutto piccolo a causa della sua piccolezza.

Ogni giorno si assiste alla commedia dell’idiota nei panni del genio, del miserabile nei panni dell’opulente.

I Voce - Ogni giorno si riceve una lezione di sapienza dall’ignorante.

II Voce - Di onestà da un ladro.

I Voce - Di eleganza da un goffo, di logica da uno sconclusionato, di etica da un qualunquista.

II Voce - Volevi dire da un politico.

Di arte, da uno che fa la cacca in una scatola, la sigilla, ci mette l’etichetta in lingua francese perché fa fino nei salotti dei parassiti. E per ultimo ti spiega che tutto è cacca e la sua è il simbolo rappresentativo ossia artistico di tutta la cacca del mondo. Il figlio di buona donna si è fatto acuto ma la superbia alla fine gioca uno scherzo atroce. Ti fa credere dotto per ridurti ignorante.

Il superbo scava la propria fossa credendo di metterci gli altri.

E la fossa è anche fisica, non solo metaforica. Infatti chi ha mai visto superbia in un viso sano e rubicondo?

Il superbo ha una faccia freddolosa anzi glaciale. Il freddo lo immobilizza e lo fa sembrare cadavere. Vive nella fossa. Una piccola fossa adeguata alla grandezza della superbia dentro composta.

Solo umiltà acquista grandezza e sempre più è basso chi da sé si innalza.

Sempre più è basso partendo dalla statura verticale alla statura orizzontale sotto il livello del calpestio stradale.

I Voce - Eppure senza superbia la nostra identità sarebbe dubbia.

Ogni più indifeso essere vivente può non morire di paura al cospetto della grande forza solamente perché al di là della sua consapevolezza d’essere debole possiede certezza e dignità.

II Voce - È ottenebrato dall’orgoglio d’essere se stesso oltre la forza degli altri.

Ogni più piccolo e debole essere, muove alla guerra senza sapere che verrà schiacciato e a questo punto lo spinge superbia.

Così per tutti superbia è spina dorsale della vita e insieme falce della morte.

I Voce - Nel calice della vita a ognuno è versato il veleno della superbia. E secondo porzione procura infelicità e solitudine.

II Voce - Il superbo è sempre schizzinoso. La pietanza degli altri gli sembra sempre schifosa e allora mangia se stesso come leccornia e preferisce soprattutto il suo sterco, come si è visto, così il conto alla fine è pagato.

 

 

INVIDIA

I Voce (Dotto) - Alla fine è pagato, perché se si dovesse pagare in anticipo nessuno di noi sarebbe vivo. Ogni vizio è pagato alla fine.

Ed è per questo che i vizi sembrano belli perché al momento sono consumati senza pagamento. Noi negli altri vedendo goduria senza costo diamo nascimento e facciamo crescere invidia.

II Voce (Satiro) - Il Padrone ci fa credito e rimanda il pagamento perché spera nella conversione che per la verità sempre arriva in tempo anche se all’ultimo minuto, ma lì per lì noi quando riceviamo generosa larghezza siamo, a causa di quella, mossi da invidia. Quanto più è generoso il credito tanto più ci sentiamo umiliati dal debito. Se poi il debito è contratto in moneta e il padrone è un tuo simile: invidia alimenta odio.

Chi aiuta, esercita la sua potenza ed evidenzia la debolezza di chi è soccorso. Così chi riceve non dà, salvo rancore.

I Voce - Rifiutare l’aiuto richiesto offende meno che elargire elemosina in abbondanza.

Questa soddisfa il bisogno contingente ma estingue la personalità per sempre.

II Voce - Ed è così che invidia trova nutrimento, ma anche la mancata elemosina alimenta invidia.

I Voce - Il processo è circolare: dall’invidia all’invidia per causa di solitaria povertà. Ma il cerchio qualche volta si spezza. L’invidia che per natura è passiva diventa attiva nell’emulazione.

II Voce - L’invidia allora è vinta dalla sua stessa natura e cambia faccia diventando positiva ma quasi sempre l’invidioso non emula ma calunnia e nasconde il valore dell’invidiato e lo minimizza.

Le due facce dell’invidia voi le vedete in platea. Se vedete uno mal rasato, smilzo e pallido; sguardo trasversale; mani in tasca; aria ascetica; state certi, quello è invidioso passivo.

Vedete quello robusto ma sempre verde di pelle? Si sprofonda nell’ossequio, vanta quelli che valgono soprattutto se non fanno il suo commercio.

Aiuta i giovani nella loro crescita perché domani non siano concorrenti.

Un vero filantropo, a condizione che si metta una targa lui vivente, che lo incensi legalmente.

Alla fine dello spettacolo il primo mena la testa da sinistra a destra, il secondo dall’alto al basso. Tutti e due con profonda considerazione.

Tutti gli altri battono le mani, loro i piedi perché hanno fretta di sottrarsi alla gloria degli attori che per compiacenza ringraziano tutti sia i passivi che gli attivi toccati dalla disgrazia dell’invidia.

Al ristorante dopo teatro, il primo ha un trangugio lento il secondo immediato ma per entrambi l’effetto è la fame continua. Avaro il primo. Liberale il secondo. Uno si nasconde l’altro si ostenta. Muto quello, ciarliero questo.

Entrambi pensano che la loro scarsa salute è dovuta alla loro probità. Ma se potesse l’invidioso toglierebbe di bocca agli altri il boccone masticato.

L’invidioso magro invidia il grasso e il grasso il magro.

L’invidioso vorrebbe per sé anche il godimento sessuale degli altri. Ma invidiando il piacere del coniuge e nel volerlo solo per sé lo aliena al coniuge e così il piacere perduto dal coniuge è perduto anche per sé.

Così l’amore fa violenza per invidia.

L’invidioso vorrebbe per strada tutti senza mutande, ma così nudi li invidierebbe lo stesso per il coraggio della loro nudità e crederebbe il suo ignobile sentimento un disinteressato apprezzamento della forza morale degli altri.

 

 

GOLA

I Voce (Dotto)  - Più la gola è grande, maggiore è la perdita di ciò che si ha gola.

II Voce (Satiro) - La gola abbrevia il tempo del godimento, abbrevia la vita e così il tempo della goduria. Il goloso è un materialista nato ma non pretende la morte di Dio come certi filosofi toccati dalla grandezza dello spirito.

I Voce - La gola rifiuta ogni progetto futuro perché ritiene raggiunto ogni scopo nella gola attuale.

II Voce - E il ritmo poetico è il ritmo frequente della stessa gola.

Le rime sono gli accordi dei sapori e degli odori che tornano secondo il ritmo a baciarsi per ricetta.

Il goloso ad ogni trangugio dimentica il precedente e così il passato non gli dà lezioni e il futuro è ottenebrato dal presente. Il tempo, per un goloso, non è il prima e il poi delle cose che avvengono, ma semplicemente non c’è: la gola è il tempo senza successione di fatti, è il fatto che succede dalla bocca al piloro.

I Voce - La sua origine è nell’antica fame di tutti gli esseri viventi. La fame diventa gola per l’estinzione della fame, da qui la sua cacciata nel mondo dei vizi anche se è incolpevole.

II Voce - Il goloso si giustifica senza essere richiesto perché vede negli altri la pietà che dovrebbe avere per sé stesso. Alla resa dei conti non chiede aiuto a nessuno perché la sua disgrazia è piacevole. Così il goloso scoppia e muore contento e chi muore contento va in paradiso.

L’agonia del goloso è poetica. Chi assiste il moribondo è esentato dai piagnistei. Chi assiste alla fine del goloso guarda in alto da dove è venuta la grazia della gloriosa pace, che in realtà non era mai in vita mancata.

Il goloso con una pesante e succulenta pentola sulla pancia vive leggero come un angelo, sospeso nell’aria. Infatti quando gola prende, tutto il resto è accidentale anche se l’oggetto del desiderio è una acciuga salata. In quel momento anche un banchetto rimandato di un’ora alla corte di Spagna cade nel disprezzo. La musica di un cherubino o il canto delle sirene, per capirci: proprio quelle di Ulisse, non colpiscono l’orecchio che ascolta gola e questo conferma che i nostri sensi percepiscono subito solamente quello che pensiamo per interesse. Un poeta ascoltando Omero non vede l’acciuga anche se gli dondola davanti agli occhi e un goloso sente Omero solo nel sapore dell’acciuga.

I Voce - Signori i vizi non soffrono la solitudine sono amati anche se condannati.

II Voce - Perché se moderati sono virtù. (Risataccia).

 

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© Copyright 1999 Mario Donizetti


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